Esiste una sola tristezza, quella di non essere santi!
Non sempre hanno avuto successo, ma hanno vinto. Non sempre sono stati colti, ma saggi. Più che potenti, sono stati resistenti. Più che forti, coraggiosi. Non sono stati festaioli, ma felici. Non sono stati celebrità, però famosi. Non sono stati perfetti ma sono stati santi.
La santità non è una dichiarazione canonica (la “canonizzazione”) da parte della Chiesa. Quella la fa la Chiesa, certo, come riconoscimento postumo di coloro che hanno dato una forte testimonianza di fede, con il loro martirio o la pratica eroica delle virtù. In realtà, tutti coloro che godono già della presenza di Dio nel cielo sono santi. La Chiesa non ha la pretesa di canonizzare tutti e per questo dedica un giorno all’anno – il 1 novembre – a celebrare la commemorazione di tutti loro. È la festa dei “santi sconosciuti”.
Bisogna chiarire che la Chiesa non “adora” i santi. Li venera, cosa molto diversa. Questo significa che riconosce e approfitta dell’esempio delle loro vite, della ricchezza della loro dottrina e del potere della loro intercessione davanti a Dio.
La santità, però, si ottiene qui sotto, in questa vita. Tutti i santi sono stati uomini di carne e ossa, come noi, e in genere sono passati attraverso le stesse difficoltà e tentazioni che abbiamo noi o a volte anche più grandi. Per essere santi bisogna essere realisti. Ci sono vite privilegiate, persone benedette da grazie straordinarie ma in ogni caso, le leggi basilari della santità sono uguali per tutti, perché la santità – che parte sempre da Dio che è la fonte di ogni grazia – comporta una collaborazione umana permanente, un impegno non privo a volte di incoerenze e contraddizioni. Un santo molto conosciuto, Paolo di Tarso, ha espresso così la sua esperienza: «Io non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto. […] Io trovo dunque in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. Infatti acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un´altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra. Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?» (Rm7, 15-24). La risposta viene dettata dall’alto: «Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza». Così, Paolo arriva ad affermare con decisione assoluta: «Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo» (2Cor 12, 9).
E io, posso essere santo? Io, che sono tanto carnale; io che sono tanto iracondo; io, che sono tanto pauroso… i nostri limiti possono essere ostacolo alla santità, solo nella misura in cui noi ce ne lasciamo condizionare. Perché, per Dio, non sono un problema. Basta ripassare l’elenco di personaggi della Bibbia che Rick Warren cita nel suo libro “La vita con uno scopo”: Abramo era molto vecchio; Giacobbe era insicuro; Lia era brutta; Giuseppe era stato abusato; Mosè era balbettante; Gedeone era povero; Sansone era codipendente; Rajab era una prostituta; Davide ha avuto un amante e ogni tipo di problema familiari; Geremia era depresso; Giona era un ribelle; Noemi era vedova; Giovanni il Battista era un eccentrico, solo per dire il meno; Pietro era impulsivo; Marta era una sempre preoccupata; la samaritana aveva avuto cinque matrimoni falliti; Zaccaria era impopolare, Tommaso era pieno di dubbi; Paolo aveva un caratteraccio; Timoteo era molto timido. Ciascuno di loro, nonostante difficoltà e miserie, fu un anello importante nella storia della salvezza. E non pochi sono nell’elenco dei grandi santi.
Ancora oggi Dio ha bisogno di altri anelli della sua storia di salvezza. Ha bisogno di uomini e donne che, a dispetto delle loro debolezze e dei loro limiti, si prestino alla sua grazia per essere parte della grande catena umana di salvezza e, nel frattempo, possano essere felici.
Esiste una sola tristezza, diceva bene san Giovanni XXIII, quella di non essere santi.