Gioventù Missionaria ad Amatrice

Ad Amatrice, due anni dopo

Anna e Niccolò raccontano l’esperienza di missione con Gioventù Missionaria a sostegno delle persone che hanno vissuto il terremoto

26 giovani, tra cui alcuni studenti dell’Università Europea di Roma, accompagnati da Cecilia Bayón, Consacrata del Regnum Christi e p. Lorenzo Curbis, Legionario di Cristo, hanno incontrato le persone che hanno vissuto il terremoto e chiedono ancora oggi, di non essere abbandonate, portando amore e speranza. Tra loro anche Anna e Niccolò.

Anna: non avevo idea di cosa significasse non avere più una casa. Come ci si potesse sentire senza il pavimento di tutti i giorni sotto i piedi.

Amatrice. Dal 24 agosto di due anni fa, se si pensa Amatrice si pensa terremoto. Fino a 5 giorni fa era così anche per me. Fino a 5 giorni fa non avevo mai parlato con quelle persone. Fino a 5 giorni fa non avevo mai incontrato i loro occhi. Fino a 5 giorni fa non avevo idea di cosa significasse non avere più una casa. Come ci si potesse sentire senza il pavimento di tutti i giorni sotto i piedi. Senza le tue cose. Senza le tue abitudini. Senza le tue persone. Le persone che ami. Non ne avevo idea. Poi sono arrivata. E appena ho visto il cartello “Amatrice” ho sentito l’aria cambiare. Era come più pesante, silenziosa. Abbiamo abbassato la musica nella macchina e siamo rimasti ad osservare. È strano guardare delle macerie morte quando sai che prima c’era una casa viva. Ho iniziato a immaginare la vita di quelle persone, prima di quel giorno. L’ho immaginata così tanto simile alla mia che mi son venuti i brividi. Persone che vivono a un’ora e mezza da casa mia. Non il Messico, non l’Africa, ma il Lazio. La mia regione. Le mie abitudini. I miei stessi bisogni e le mie stesse abitudini. Questa cosa mi ha soffocato. Mi sono sentita così tanto simile a loro eppure così diversa e non sapevo cosa fare. Sono come me, solo che io ho tutto e loro niente.

Immediatamente ho sentito tutte le maschere che di solito indosso, cadere. Questo è il miracolo che avviene davanti al dolore. Che non hai nessuna possibilità se non quella di essere vero, nudo. Non puoi parlare a chi ha sofferto con distacco, seguendo delle regole ben precise di comportamento, con una scaletta da rispettare. Devi parlare a un cuore. E non a uno qualsiasi, ma a un cuore che ha sofferto, e per farlo devi prendere contatto con la parte di te che ha conosciuto il dolore.

Ho conosciuto tante persone. E ognuna ha lasciato qualcosa di importante, di grande. La prima che ho incontrato è stata Alessandra. Qualcuno la chiama Sandra, qualcuno Alessandrina, qualcuno Sandrina. Lei risponde ad ogni nome, come se qualsiasi identità andasse bene per chi non sa più chi è e perché vive. È stata la prima cosa che ha detto: “Non so più perché esisto. Che senso ho. Cosa ci sto a fare”. Questa frase ha gelato il mio cuore. L’ho guardata e ho pensato che stesse vivendo la più grande sofferenza che un essere umano può vivere, non avere un senso. Sentirsi inutile, solo, vuoto.
Ho pensato che non era vero, che tutti noi abbiamo qualcosa di grande da fare in questa vita, che non è possibile che è tutto un caso. Ho pensato che lei avesse qualcosa di speciale da dare. A me, per prima. Che avesse un’importante lezione da insegnarmi. E così è stato.

Le abbiamo chiesto di accompagnarci per le varie frazioni, per presentarci, per aiutarci. E subito il suo volto è cambiato. Passavamo e casa per casa il suo volto era sempre più acceso, più luminoso. Parlava con uomini e donne che avevano sofferto il suo stesso dolore e aveva per ognuno parole di conforto, di aiuto sincero, di sana compassione. Ascoltava tutti con attenzione e poi trovava il modo per dare un significato a quel dolore. Diceva ad ognuno qualcosa di diverso, di speciale. E poi una stessa cosa a tutti: “Stiamo insieme. Mi raccomando, non perdiamoci. Stiamo vicini. Venite a prendervi un caffè qui da me, domani passo io. Aiutiamoci. Per favore, è importante”.

Stiamo insieme. Non lasciamo che la solitudine ci divori. Non lasciamo che vincano i pensieri neri. A tutto c’è un significato, anche a questo. Insieme possiamo trovarlo. Sandra mi ha parlato della vita, dell’amore per il marito perso, dell’amore per la vita, di cucina, del suo amore immenso per le cose belle. Mi ha parlato del dolore, della sofferenza che si prova quando senti di aver perso tutto, di quanta fatica ci voglia per tornare a vivere e quanta per non smettere di credere in qualcosa di più grande e di più bello.

Ho conosciuto tante storie. E ho tante immagini dentro il cuore, ve ne regalo qualcuna, perché in questo modo le ricordo a me stessa. Iva e Quinto, una coppia di innamorati, tanto anziani quanto felici. Quinto mi ha detto, una sera, che tutto ciò che ha lo divide a metà con Iva e che l’amore è proprio questo: pensare sempre all’altro, prima di te. Anche quando non puoi, prova a donare. Iva è tutta d’un pezzo, ma quando sorride si accende il sole. Ama follemente Quinto e insieme continuano a camminare. Filomena è una signora. Ferita, questo direi. E probabilmente anche parecchio disillusa. Filomena non crede in niente e tantomeno spera. Filomena vive da sola in casa e non apprezza visite. Il primo giorno in cui l’ho incontrata, Filomena non voleva neanche parlarmi. L’ultimo giorno, dopo essere tornata varie volte da lei, ci siamo ritrovate in casa a cucinare insieme la pizza. Finalmente sorrideva e, per un momento, mi è sembrata serena. Filomena mi ha salutata con un abbraccio e a mezza bocca mi ha detto: “Spero di rivederti”. Anche io, tornerò. Rodolfo è un uomo solo. Triste. Arrabbiato. Rodolfo ha mille domande e nessuna risposta. Ha aperto la porta di casa il giusto per riuscire a vedere chi aveva appena bussato, ci ha lasciato parlare e poi ha chiuso la porta, senza dire nulla, solo guardandoci. Sono rimasta lì. Immobile. Rodolfo aveva qualcosa da raccontarmi e io volevo ascoltarla. Ho bussato di nuovo e sono scoppiata in lacrime, gli ho chiesto scusa, per essere stati così distanti da lui. Per non aver capito. Per non aver chiesto. Gli ho detto che non sapevo se lui volesse parlare, ma che io volevo ascoltare. Che sarei rimasta lì anche in silenzio, se a lui avesse fatto piacere. È rimasto fermo lì, per circa 30 secondi, con i suoi occhi nei miei, come se stesse cercando di capire se poteva fidarsi. Se aveva senso, donarmi qualcosa di sé. Poi ha iniziato a parlare. Sono rimasta lì ad ascoltarlo per due ore e mezza. Aveva una storia bellissima Rodolfo, poi, 5 anni fa, è morta Lucia. Sua moglie. La sua dolcezza, il suo cuore, così mi ha detto. “È stata la sua morte il mio terremoto”. Rodolfo mi ha insegnato cosa significa amare davvero qualcuno. I suoi occhi ancora cercano Lucia e in un modo che commuove chi se ne accorge. Rodolfo vuole scrivere. Vuole raccontare la sua storia, il suo amore. La sua follia, così mi ha detto che vive ciò che gli è successo, nel bene e nel male. Rodolfo vuole vivere e sta cercando un modo. Potrei raccontare tante altre immagini, ma tutte raccontano una storia sola, di fondo. La vita che cerca di tornare. La vita che non muore quando decidiamo noi. Lei continua, continua, continua… Queste persone hanno perso tanto, ma non tutto. E anche se dicono così, sanno che non è vero. Sanno di poter fare qualcosa. Di poter amare qualcuno. Di poter aiutare. Sanno di poter vivere. E quando ci riescono, succede il miracolo. Io, nel mio piccolo, una cosa posso dirla, da qualcuno che la vita se l’è spesso tolta da sola: grazie. Grazie perché vedere i vostri occhi, le vostre mani, ascoltarvi parlare e comunque sempre tentare, mi ha insegnato la gratitudine. Il valore delle cose e soprattutto delle persone. Grazie. Di cuore.

Niccolò: il senso della mia presenza lì l’ho capito ascoltando le testimonianze e i ringraziamenti delle persone.

Durante gli anni di apostolato con Gioventù Missionaria, ho avuto modo di fare molte missioni. Ognuna mi ha lasciato qualcosa che ho portato e porto tutt’ora nel cuore; tuttavia mi sento di dire che questa missione è accaduto qualcosa di straordinario, certamente non soltanto frutto della nostra azione umana.

Ricordo ancora lo sguardo dubbioso di alcune persone quando proposi l’idea di fare missione lì. Se da una parte c’era il dubbio e la paura, dall’altra sentivo dentro di me una spinta ad andare oltre e ad ascoltare ciò che sentivo nel cuore. Via via che mi confrontavo con le difficoltà organizzative insieme al mio staff, percepivo crescere questo progetto, che vedevo già realizzato dentro me.

Ricordo che, durante un momento di riflessione dissi: “Signore io ce la metto tutta fino all’ultimo, se tu mi hai mandato fino a qui, al momento opportuno mi indicherai la soluzione”. Non mi sbagliavo, è stato proprio così.

Bellissimo è stato vedere come gli amici hanno partecipato; tutti hanno scelto di dedicare del tempo per spendere parte del loro cuore al servizio di coloro che soffrono. Questa missione rappresentava un po’ il paradigma delle nostre vite. Spesso accade che durante il nostro cammino di vita ci sia un evento che ci fa soffrire e succede come ad Amatrice; un terremoto ci sconvolge la vita e ci lascia inermi. Ci si sente a terra e non si ha più a voglia di guardare avanti, di vivere. Si pensa che tutto finisca con quell’evento catastrofico che ci è capitato. Però la vita è un dono meraviglioso e dentro me dicevo: non può essere che tutto finisca qui, altrimenti Dio non esisterebbe se così fosse.

Ho capito col tempo che, indipendentemente da ciò che ci accade, abbiamo sempre due scelte: rimanere fermi o reagire, provare rabbia o aprirsi all’amore. Personalmente, anche se a fatica, ho sempre scelto la seconda opzione. Certo spesso è difficile, perché il cuore è un muscolo che deve essere allenato e quando capitano certi eventi nella nostra vita non è semplice. L’amore ha bisogno di essere supportato dal coraggio e il coraggio dall’amore. Questi due elementi insieme costituiscono il coraggio di amare. Ogni progetto lavorativo, affettivo che non abbia alla base l’amore vero fallisce. Occorre quindi vincere le nostre paure per far vincere l’amore. Le paure sono catene che ci legano, ma noi non siamo fatti per essere legati.

In questa missione ogni missionario ha messo da parte le paure, i timori e ha scelto di esserci. Ha scelto di rispondere alle lacrime con un sorriso, ha scelto a mille parole inutili un abbraccio, una carezza. Vedere questa ondata di positività invadere i volti della gente e dei ragazzi mi ha, in un primo momento, appagato.

Il vero senso della mia presenza lì l’ho tuttavia capito quando, ascoltando le testimonianze e i ringraziamenti delle persone, ho capito che io non avevo fatto niente e che Dio si era soltanto servito di me. Aveva usato la mia intelligenza, la mia caparbietà, il mio cuore per compiere una sua opera. Capire questo ha dato senso pieno al perché di questa missione e soprattutto mi ha fatto vivere sulla mia pelle la gioia e la bellezza di essere strumento di bene. Bellissimo è stato rispondere a tutto quel dolore con la musica, la confusione, la gioia. Noi stavamo in mezzo a tutta quella distruzione senza esserne travolti, anzi con una gioia che sconquassava il petto. Sembrava che un uragano di felicità avesse investito quella terra ferita.

Per i racconti che abbiamo sentito sarebbe dovuta calare la tristezza immediatamente, invece più si ascoltava negatività più si controbatteva con l’allegria. Tutto questo sono certo che è stato possibile attraverso la mano di qualcuno di più alto di noi che scruta e vede i cuori di ognuno e silenziosamente ci ha guidati verso coloro che avevano più bisogno. Il primo obiettivo della missione è stato centrato perché forse con la nostra semplicità abbiamo contribuito a rispondere con la vita ad un luogo che ancora evoca solo sofferenza.

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